L’Hotel Carrera, uno degli Hotel più esclusivi di Santiago del Chile, domina il grande giardino antistante il Palazzo della Moneda e conserva nelle sue mura frammenti di storia dell'intero Paese. Ogni volta che arrivo il Direttore mi accoglie con grande cordialità e non risparmia grandi sorrisi che sembrano sinceri e mitigano un po' l'austerità dell'ambiente dove trionfano imponenti colonne di marmo pregiato e gli ottoni lucidissimi che ornano l'enorme bancone della reception.
Ma ormai ci sono abituato. Ci si abitua presto alle cose eleganti e ai trattamenti da V.I.P. specialmente quando in privato sei un uomo qualunque.
L’azienda è a due passi e dunque la mattina vado a piedi al lavoro ben attento a proteggermi il naso con il fazzoletto. La “contaminacion” è sempre ai massimi livelli e certe volte non si distingue l’altro lato della piazza tanto è fitta la coltre scura che aleggia perennemente tra le strade.
I monti andini si riflettono con le loro cime bianchissime sulle enormi vetrate dei grattacieli dove l’acciaio e il cemento vengono distratti dal fumè delle finestre sempre ermeticamente serrate.
Ormai sono parecchi mesi che vengo qui a Santiago del Chile almeno una volta al mese.
Sta diventando la mia seconda casa l’Hotel Carrera. Quindici giorni in quel lusso e gli altri quindici nel mio appartamento alla periferia di Roma est-
Ho riempito casa di lapislazzuli e maschere, qualche flauto e molti cilindri di legno cavo pieni di semi che abilmente maneggiati diventano un ottimo strumento musicale.
Negli occhi mi porto l’oceano di Valparaiso e nel cuore gli sguardi della povera gente sempre in cerca di vendere qualcosa per rimediare un po di “plata” per comprare qualcosa da mangiare.
Gente triste che cammina con lo sguardo chino sui propri passi e si ravviva solo al suono dei molti musici che agli angoli della strade intonano ritmi andini resi famosi in tutto il mondo dagli Intillimani.
Le bancarelle hanno tutte quante la forma di barchette coloratissime e sono ricolme di cose di poco conto, eppure c’è sempre tanta gente intorno ad esse a guardare, a toccare, a desiderare.
Incontro Josè Torres un ragazzo di trentacinque anni con i capelli tagliati a spazzola, la camicia bianca sotto una giacca spinata con la martingala dietro. I pantaloni sono lisi sulle ginocchia e probabilmente sulle natiche, ma queste sono coperte dalla giacca e dunque il mio è solo un sospetto.
Fa il contabile nel settore amministrativo dell’azienda dove sto lavorando in questi mesi ed è lui che mi consegna i documenti necessari al mio lavoro. Ma ora i miei incontri con lui sono sempre più rari
Quella fase di lavoro è terminata e le mie conclusioni sono state condivise ed approvate dalla società di Consulenza della mia azienda ed approvate dal mio Amministratore Delegato.
Nonostante ciò mi piace continuare a parlare con lui. E’ un giovanotto simpatico ammogliato con una ragazza non bella ma molto prolifica. Hanno quattro figli e lui ne è orgoglioso. Più volte mi ha mostrato la foto dei suoi ragazzini e quasi mi sembra di conoscerli.
Nel 1973 aveva solo undici anni e sette fratelli. Tutti contadini che lavoravano con il padre un podere di un signorotto tedesco di cui non ricordava nemmeno più il nome. Lui era il più piccolo dei fratelli e fu questo che lo salvò dall’oceano e dalle caverne scavate nella roccia.
Mi racconta sempre che la madre vive con lui e la sua famiglia e siede a capotavola quando a cena sono tutti riuniti.
Varchiamo il portone del fabbricato e lui si dirige verso il tornello che al suo badge si apre facendolo passare senza risparmiagli una piccola botta appena sotto la martingala.
Il portiere mi saluta con reverenza ed io spingo il bottone dell’ascensore. Ultimo piano, Direzione generale.
Sono in perfetto orario ma nonostante ciò trovo già tutti seduti intorno al tavolo ovale.
Al mio ingresso molti si alzano in segno di saluto, altri fingono di non essersi accorti che sono arrivato.
L’amministratore Delegato viene subito al dunque con una domanda precisa.
“Quanti?”
“Novantacinque” rispondo io
“Sono troppi” replica lui
Mi siedo ed apro la borsa. Ne traggo una cartellina con dieci fogli.
Un usciere si precipita a prenderla e quasi correndo la consegna all’Amministatore Delegato.
In silenzio lui l’esamina. Tutti gli altri sembra che trattengano il respiro. Sanno che in quella lista molti di lori sono presenti.
Il mio lavoro è terminato e loro sanno che non ci sono spazi di contrattazione su quel numero e sulle altre condizioni vergate sui fogli che stanno leggendo. Li osservo quel tanto che mi basta per sentirmi di troppo in quella sala e allora mi alzo senza dire altro che “adios” e guadagno la porta.
Il mio aereo parte alle 16,30 ma debbo stare in aeroporto alle 14.
Giusto il tempo di fare la valigia provvedere al check out in hotel e prendere un taxi.
Il portiere sarà sorpreso nel rivedermi così presto.
Ad un tratto sento un bisogno impellente di risalire. Ritorno sui miei passi e rispingo il bottone dell’ascensore, ma stavolta mi fermo al quinto piano. Percorro il corridoio e mi fermo davanti alla porta della stanza 18.
Busso ed attendo. Sento la voce di Josè dire “Adelante!”
Sto per aprire la porta ma ad un tratto mi blocco. Mi rendo conto di non farcela a guardarlo negli occhi.
Volto le spalle e quasi correndo raggiungo di nuovo l’ascensore.
E’ un mondo cattivo questo.