Il desiderio del momento era uno. Colorare di bianco, di rosa, di verde, di giallo, di arancione, di tutti i colori possibili, mischiati, sfumati, tenui o fitti, tutti gli angoli della memoria, quella tale o pseudo tale, senza differenza perché entrambe vivono fino a quando lo si ritiene utile. Per poter gettare colate di colore sui pensieri più bui che spesso sono ricordi, bisogna attraversare un fiume nero, nero pesto, maleodorante, ma il passaggio è necessario, diciamo pure indispensabile. Ho rischiato di finirci dentro e di non uscirne più, come risucchiata da sabbie mobili che non perdonano, nemmeno il più innocente volo di mosca. I colori sono le scintille dell’essere quando è vivo, palpitante, presente con il cuore più che con la mente. Aperto, gioioso se gli è possibile. Nelle acque paludose la gioia non è di casa. Viene estromessa per default. Come se non fosse all’altezza della situazione, incapace di comprendere la gravità del fatto. O dei fatti. Quali? Siamo al mondo. Davvero? Malauguratamente al mondo, collettivamente nel mondo direi. Ma la vita sembra essere un fatto individuale, strettamente individuale. Sembra un privilegio per pochi, da conservare, difendere. Mi chiedo cosa ci sia da condividere e se possa essere concepibile il piacere di condividere. Forse il desiderio di condividere. Innato? Potrebbe. Quanto quello del sopraffare l’altro. Poi interviene l’ambiente, l’educazione e la scelta. La libera scelta. A ognuno la sua.
Così ho scelto. Forse scelsi e non me ne accorsi. Già da qualche tempo, qualche anno. Scelsi i colori. La vivacità del pensiero. Scelsi di fare spazio – intuitivamente pulito - intorno e dentro me. Di cercare il modo per sradicare un ferro, poi un altro, un altro e un altro e uscire dalla gabbia. Dove sembrava volessero chiudermi o dove sembrava volessi continuare a nascondermi.